I colori del Rossese a Divin Arte

Sabato scorso sono stato per la mia prima volta ad una degustazione organizzata da Divin Arte a Mentana

I colori del Rossese: Dolceacqua, paesaggi e passaggi tenuto da Giampiero Pulcini.

Avevo con Giampiero fatto diverse serate intorno a un tavolo, chiacchierato al telefono, via FB o letto su vari blog. 
Ma era la prima volta per che lo sentivo tenere una degustazione.
Sono rimasto basito! 
Competenza e cultura incredibili.
Come ha scritto Samatha, che era seduta al mio fianco, una degustazione tenuta in modo semplice e sottovoce. Tenendo sempre attenta la platea.
O come lo descrive Elisa nel tavolo affianco al mio, un docente "asciutto, preciso, ma coinvolgente e passionale". 
Di sicuro questa non sarà l’ultima degustazione che farò con Giampiero a Divin Arte.

Ma veniamo ora al racconto delle tre ore passate insieme e vi riporto quasi un copia&incolla del racconto sui colori del Rossese.
  
In Liguria in provincia di Imperia fra mare e montagna non c’è filtro, le montagne rigogliose si gettano direttamente nel mare.
Se ci addentriamo verso l’interno rispetto alla costa, dopo soli 4km, ci si trova in una dimensione completamente diversa. 

Dolceacqua è distante 10km e 10 anni luce dalla costa.

Nelle belle giornate se ti affacci vedi Ventimiglia, Mentone e il mare, ma ti sembra di essere fuori dal mondo,  con il tempo che si è quasi fermato.
Un ambiente particolarissimo. 
Ti guardi intorno cercando le vigne e … non le trovi.

Nelle montagne che chiudono la vallata le vigne sono tutte nascoste, racchiuse fra i boschi e una vegetazione esplosiva. 
Per visitarle o sei accompagnato o rischi di non trovarle. 
E la stessa difficoltà vale anche per le cantine nelle piccole viuzze di Dolceacqua. 
La viticoltura qui non è eroica (in condizioni particolarmente disagiate quindi) ma è semplicemente (termine forse sminuente) faticosa.
La natura li ha messi li e sono costretti a barcamenarsi nel territorio in cui si trovano.

Siamo fra i 250 e i 350mt slm, ma le pendenze sono incredibili. 
Non è montagna ma sembra di starci.
Generalizzo per la pendenza perché a Dolceacque a nessuna vigna si può dare un altezza precisa. 
Sono tutti in piccoli appezzamenti sparsi su terrazzamenti con muretti a secco (da ripuntellare ogni anno a causa delle pendenze violente), tutti con esposizioni e terreni ben diversi fra loro. 
Sono piccoli fazzoletti di vigne dove è impossibile qualsiasi meccanizzazione.

La biodiversità è incredibile e influisce sia sulla bellezza del posto che sulle caratteristiche organolettiche del Rossese.

Il terreno è incredibile. E’ molto chiaro, con diversi fossili marini vista la vicinanza al mare, e le rocce calcaree originarie con una granulometria diversa da zona a zona a seconda degli stati evolutivi. 
In alcune zone trovi massi grandi, in altre roccia spaccata o addirittura sgretolata a tal punto che sembra di stare sulla sabbia.
Lo sgretolamento influisce sul nome del terreno chiamato in dialetto locale “sgruttu”, un terreno appunto con pochissimo calcare, quindi poco acido ma che da impronta minerali molto forti.

Passando all’uva, il Rossese è un autoctono che nasce e si sviluppa soli li a Dolceacqua.
L’uva ha una buccia molto molto sottile ed ha un tenore zuccherino molto alto… tanto che vale la pena spiluccare e mangiarne gli acini durante la vendemmia.
La forma di allevamento tradizionale è l’alberello che non costringe la vite a crescere su filari guidandone lo sviluppo. 
E’ la forma selvatica della vite più diffusa nelle zone siccitose, con cui ogni pianta conserva la sua individualità.
Stando molto bassa a terra ha la massima efficienza nello sfruttamento della poca acqua che c’è nel terreno e si cerca la luce nel modo più opportuno, consentendone così una longevità maggiore.

Mediamente le vigne vanno dai  50 ai 70 anni di età, ma non è raro trovarne di ultracentenarie. E’ un’età media che non si trova in nessun’altra zona in Italia, e testimonia che a Dolceacqua la viticoltura c’è da sempre pur non essendo una vera tradizione.
Fino a pochi anni fa, ognuno si faceva il vino in casa. Erano tutti agricoltori, senz’altro anche vignaioli, ma soprattutto agricoltori che coltivavano fiori (soprattutto rose) e l’olio e producevano il vino per casa o come merce di scambio. 

Quindi affermare cosa sia stato nel tempo il Rossese è difficile. 
Sono stati trovati molti documenti scritti ma davvero poche vecchie bottiglie. Alcune magnifiche, altre imbevibili.

Da 20 anni a oggi con le nuove generazioni c’è una spinta ad una viticultura più consapevole e tradizionale.
L’obiettivo è far vinificare correttamente il vino con l’ossessione di togliere i difetti “brutti” al vino e poi interrogarsi su cosa possa essere: un vino importante o un più vino corrente per il consumo?
E’ difficile inquadrarlo associandolo ad altri vini. 
In passato si è provato ad accostarlo al Pinot Noir della Borgogna o allo Shyraz del Rodano ma non c’entra davvero nulla.

Ha le sue peculiarità che lo rendono diverso dagli altri o da se stesso, da produttore a produttore o anche da bottiglia a bottiglia, perché vista la frammentazione delle piante anche spostandosi  da una vigna all’altra è sempre differente.

E le vecchie? Può esser magnifico o no. 
Conservazione ed evoluzione fanno la differenza.
Molti vini come la barbera si conservano bene a lungo ma non evolvono, anche dopo 40 anni li ritrovi mummificati dall’acidità. Il tempo serve a poco a farli evolvere.
Il Rossese è invece al contrario un vino che non si conserva a lungo ma evolve alla grande.  
Non è quindi da invecchiamento, ma in 10/15 anni evolve in maniera incredibile.
E’ capace di trasformarsi in maniera tale da rendere ogni volta l’apertura della bottiglia sorprendente, mai banale. Può piacere o meno ma non ti lascia indifferente.
Poco tannino, è un vino sfumato, a volte sfuggente, con la buccia sottile che a tende a sgretolarsi subito con il rischio di avere vini un po’ sporchi. Con le conseguenti molte filtrazioni in botte.
L’uva è molto zuccherina e il vino di conseguenza tende a sviluppare molto alcol, arrivando con disinvoltura a 14%.
Nelle annate difficili il rossese ne risente parecchio, non avendo la vigoria di altri vitigni che grazie alla buccia spessa o all’acidità si difendono da un clima sfavorevole.
Il terreno argilloso, denso e fitto di materiali marini è poco acido, ma trasferisce molto spinta al vino.

Il rossese non è orizzontale o tarchiato (non ha l’estratto secco del barolo o del sagrantino), non ha un tannino che lo fa definire possente, non è verticale mancandogli  l’acidità del terreno non calcareo. 
Ma è un vino “ellittico” con incredibile mineralità marina dovuta al terreno argilloso e un tannino gentile che entra  in punta dei piedi, con una fisicità giocata sull’equilibrio tra il calore dell’alcool e di contrappunto la sapidità marcata. 
Arriva a centro bocca dove si puntella per il sale e comincia a girare diffondendo il suo patrimonio aromatico, poi si stringe nel finale di bocca e, mancando l’acidità, non arriva a fondo lingua, ritornando però su per le vie retronasali.
Il Rossese grazie al suo patrimonio aromatico molto particolare e ad un alcol notevole non è un vino lungo ma è molto persistente. Ricordandoci che la lunghezza e la persistenza non sono sinonimi.
La lunghezza è quella fisica, la capacità che il vino ha di percorrere la vocca e raggiungere il fondo della lingua (come nei sancerre in cui l’acidità è violenta fino a fondo lingua).
La persistenza è invece il tempo che il vino resta in bocca, la sua capacità di evocare anche per vie retronasali i sentori che avevamo sentito in bocca.
Se volgiamo trovare dei riferimenti generali, il rossese ha dei nasi molto fruttati, fiori, affiancati da speziatura che va dal pepe rosa al pepe bianco, molto delicati, ed erbe aromatiche.
Difficilmente abbiamo frutti corposi, semmai un ribes,  un agrume, frutti più sottili e ricercati con un aromaticità  che ritorna a fine bocca con sentori immancabilmente amari, ma mai sgraziati.
Sono sentori austeri e marcati, non una banale liquirizia ma ricercati come il rabarbaro, il chinotto, il ginepro. 
E’ un vino che può piacere o meno, ma non lascia mai indifferenti. Ha un patrimonio aromatico che non lo si associa ad altri vini.
Soprattutto sorprendente è sua la capacità di rimescolare le sue componenti  e di riassemblarle ogni volta in maniera diversa e particolare.
Citando Filippo Rondelli, uno dei più noti produttori, ”il rossese va compreso per sottrazione”. Come nella musica, va compresa l’importanza del vuoto. 
Gli spazi vuoti ci fanno apprezzare meglio quello che c’è dentro. La coperta del Rossese è corta, non è come il Barolo, ma non per questo non può essere un vino rilevante, un vino che regali. 
Lo devi bere con affetto e interesse.

Passiamo ora alle bottiglie che abbiamo degustato.
Due diverse annate. La 2010, perfetta e la 2011, che sconta il fatto il rossese tende a ridursi e quindi ha bisogno di stare un po’ in bottiglia e, una volta versato, anche di prendersi il suo tempo nel bicchiere.

1) Classico 2011, Giuseppina Tornatore 
Duccio e Giuseppina Tornatore hanno comprato le vigne nel 1984, cominciando a imbottigliare il vino dal 1990.
Un ettaro di vigne diviso su due diversi versanti raggiungibili attraversando completamente la valle.
Oltre alla produzione delle bottiglie conferiscono 1/3 dell’uva alla cooperativa.
Vinificano in acciaio senza lieviti selezionati. 
Un vino un po’ polveroso in bocca che rappresenta un po’ il Rossese di Dolceacqua com’era.
Con la sua spontaneità  rappresenta una versione verace, un rossese “da tavola”, senza però sminuirlo con questo termine.
Anguria matura, molte note floreali, qualche spruzzo di roccia e di mare. 
Leggero con struttura lieve, non è aggressivo, con una sapidità marcata che fa aumentare bene la salivazione. 
Amarognolo il finale rispecchia l’uva con ritorni di rabarbaro.

2) Classico “Migliarina” 2010, Tenuta Rondelli
Prodotto da una piccola vigna con esposizione a ovest da un ragazzo giovane di mano leggera.
Fa solo acciaio.
Naso stretto ma interessante con poche note di fiori e frutta. Prevalgono polvere bagnata, note terrose e spruzzi di zolfo e copertone bruciato.
Ti invoglia a tornarci sopra con il naso perché nei minuti cambia notevolmente.
Molto sapido in bocca e grasso in bocca. 

3) Classico “Beragna” 2011, Ka’ Mancinè
Piccola azienda giovanissima portata avanti da Maurizio Anfosso, con non più di tre ettari comprati nel ’96 ed il primo imbottigliamento nel 2006.
Il Beragna viene da vigne molto vecchie e assieme alle altre due bottiglie del Galeae e dello Sciakk ha subito avuto un bel successo di critica e mercato. 
Al naso subito polvere da sparo, note di alice sott’olio, fiori e  granatina.
Delizioso ed equilibrato. Con bell’acidità. 
Da bere sempre, d’inverno e d’estate!
4) Classico Arcagna 2011, Testalonga
Piccolissima cantina con botti da 400lt austriache. 
Fermentazione spontanea senza alcun lievito selezionato, dal 2011 ha cominciato a rimettere gli aspri.
Ha cominciato a imbottigliare nel 1982 circa 3.000 bottiglie all’anno dopo decenni di vendita sfuso a ristoranti o a privati.
Fra questi c’era un signore di Dolceacqua emigrato all’estero che ogni estate tornava in Liguria dove Nino Perrino gli aveva affittato la casa. Ogni anno comprava il vino sfuso da Perrino e lo imbottigliava in renane che si portava dietro dall’Alsazia, scrivendoci sopra in etichetta l’annata per poi consumarlo a casa. Una volta scomparso, Nino Perrino riprese possesso della casa scoprendo nella cantina tutte queste vecchie bottiglie che io pochi come Giampiero, Giancarlo o Armando hanno avuto il piacere di degustare e la cui verticale trovate raccontata sul numero 31 di Bibenda.
Profuma di tutto e il contrario di tutto. Un gentiluomo di campagna. Una rusticità elegantissima.
Quasi impalpabile, in assenza di materia. Note delicatissime di fiori e di ribes con pepe bianco di contorno. Veracità spontanea. Genuinità. Un acquerello capacissimo di invecchiare.
5) Superiore “Poggio Pini” 2010, Tenuta Anfosso
Poggio Pini è una spettacolare vigna vecchissima in un anfiteatro molto basso (parte da 200mt).
Esce per scelta aziendale un anno dopo tutti gli altri. Sono vini molto potenti , dallo stile molto rigoroso. 
Anguria, erbe aromatiche, sandalo. Molto netto e definito, lascia presagire con una bocca austera e chiusa ma succosa di poter andare avanti a lungo.

6) Superiore “Posau” 2010, Maccario – Dringerberg
La vigna Posaù  (Posatore, dove la gente si fermava a riposarsi) da vini piuttosto caldi con vigneti fra i 50 a i 70 anni esposti a pieno est in Val Verbone. Giovanna Maccario, persona da grande generosità e grande cuore, vinifica separatamente le tre parcelle, la mediana, la bassa e la superiore, e poi solo successivamente assembla le uve.
La vendemmia è a scalare perché a seconda dell’altezza del vigneto le uve maturano con tempistiche diverse.
Nel Posaù va solo la parte superiore del vigneto.
Spruzzi mentolati, molto pepe, incredibile finezza che t’invita a respirarci sopra a pieni polmoni.
Un vino succoso, strutturato ed elegantissimo.
7) Superiore “Bricco Arcagna” 2011, Terre Bianche
Prodotto da Filippo Rondelli dal miglior cru di Dolceacqua con impostazione borgognona, la fermentazione malolattica e l’affinamento avviene in botti piccole nuove.
Una scelta motivata non per compiacere il pubblico ma convinto sia necessaria, ritenendo il rossese un vino molto riduttivo che necessità di respirare nel legno. 
Questa è la prima annata con un 10% di raspi, e ha bisogno più degli altri di attenderlo in bottiglia. L’uso del legno è impeccabile. Dosato e non invadente, la materia prima la riconosci.
I sentori barricati si amalgameranno con più tempo con vino che oggi è in fase di metabolizzazione.
Un grande vino.

Riassumendo, è stato un gran bel pomeriggio trascorso in piacevolissima compagnia, mangiando un grande asiago e bevendo belle bottiglie.
Mi rimane solo un grande desiderio ora… andare il prima possibile a Dolceacqua a fare foto, visitare le aziende e mangiare il piatto capra e fagioli!


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